sabato 30 novembre 2013

LA TURCHIA E LE TENTAZIONI AUTORITARIE DI ERDOGAN

Dalla dura repressione di "Occupy Gezi" alle intercettazioni illegali di giornalisti da parte dei servi segreti

Da www.thetimes.co.uk
Almeno 3,6 milioni di persone hanno partecipato alle grandi proteste anti-governative di giugno e luglio in Turchia, partite dalla difesa del Gezi Park di Istanbul e presto indirizzata contro la deriva islamica ed autoritaria del premier Recep Tayyip Erdogan,. Lo riporta un rapporto dei servizi di sicurezza e intelligence pubblicato lunedì scorso dal quotidiano Milliyet. Il documento precisa che fra maggio e luglio si sono svolte 5500 manifestazioni in tutto il paese: solo la provincia di Bayburt, sul Mar Nero, è rimasta estranea alle proteste. Il rapporto della polizia stima inoltre che durante gli scontri sarebbero stati provocati danni per 139 milioni di lire turche (51 milioni di euro). Lo studio traccia anche un “profilo demografico” dei manifestanti sulla base dei dati personali degli arrestati che conferma come il movimento “Occupy Gezi” sia stato animato dai giovani, per la maggior parte laureati e con un reddito basso (meno di 1000 lire turche pari a 370 euro circa): oltre l'80% dei partecipanti aveva meno di 30 anni e oltre la metà fra i 18 e i 25. Dei 5500 arrestati (190 dei quali sono ancora in carcere), metà erano donne e più di tre quarti erano appartenenti alla comunità alevita, una minoranza culturale e religiosa che conta circa 10 milioni di aderenti che praticano un Islam piuttosto eterodosso e liberale e da sempre subiscono pesanti discriminazioni e che sono stati in prima linea nelle proteste. Questi dati hanno provocato la reazione del Partito repubblicano del popolo (principale formazione dell'opposizione ed erede diretto della tradizione kemalista): “Il governo ha creato per caso una ufficio per la schedatura? Come è possibile dire con certezza che il 78% sono aleviti?”, ha chiesto polemicamente il vicesegretario Sezgin Tanrikulu.

Dopo le caldissime giornate di giugno e luglio le manifestazioni sono finite, a parte una brevissima fiammata a settembre, ma gli arresti e i processi contro chi è sceso in piazza continuano. I provvedimenti giudiziari riguardano anche membri delle forze dell'ordine per omicidio. Le proteste della scorsa estate, infatti, sono costate la vita a cinque manifestanti sono morti, mentre ci sono stati 4320 feriti, alcuni dei quali in modo molto grave, mentre altri hanno riportato danni permanenti. Stando all'ordine dei medici, inoltre, i manifestanti feriti sono stati oltre 8mila. La dura repressione decisa dal governo del premier Recep Tayyip Erdogan ha suscitato una pioggia di critiche da tutto il mondo. Ultima in ordine di tempo la condanna giunta in settimana dal Consiglio d'Europa: quanto avvenuto a maggio e giugno scorsi evidenzia ancora una volta il duraturo e sistematico problema dell'insufficiente rispetto dei diritti umani da parte della polizia turca, ha dettoil commissario per i diritti umani del Consiglio d'Europa, Nils Muiznieks, nel rapporto pubblicato martedì 26 e basato sulla visita condotta all'inizio di luglio. Il commissario chiede quindi una revisione delle leggi che regolano il diritto a manifestare, giudicate troppo restrittive.

Nei giorni scorsi è arrivata anche la notizia, riportata dall'edizione online del quotidiano di Ankara Zaman, che il Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori ha deciso di avviare una inchiesta dopo che i telefoni di diversi giornalisti sono stati intercettati dai servizi segreti del Mit, che avevano chiesto l'autorizzazione della magistratura usando falsi nomi. Secondo il giornale, diversi giornalisti dell'autorevole quotidiano indipendente Taraf, critico nei confronti del governo del premier Erdogan, fra cui il direttore Ahmet Altan, il vicedirettore Yasmin Congar e alcuni editorialisti, sarebbero stati spiati fra il 2008 e il 2009 dal Mit. Stando Cumhuriyet, altra testata di opposizione, le intercettazioni sarebbero state approvate da Erdogan, cui é considerato vicino il direttore dei servizi segreti Hakan Fidan. Le intercettazioni sarebbero state autorizzate regolarmente da un magistrato, ma secondo il quotidiano Radikal la documentazione presentata dal Mit alla magistratura non indicava i nomi dei giornalisti, ma false generalità di presunti cittadini arabi. I numeri di telefono da sorvegliare erano invece quelli dei cronisti di Taraf. Il presidente della Prima camera del Consiglio Supremo dei Giudici e dei Procuratori, Ibrahim Okur, citato da Radikal, ha confermato l'avvio di una inchiesta precisando che “perfino il Mit non può nascondere informazioni alla giustizia. Non può cancellare i nomi veri delle persone e inviare alla corte nomi falsi”.

giovedì 28 novembre 2013

LA CROAZIA VERSO IL REFERENDUM CONTRO IL MATRIMONIO GAY

Domenica 1° dicembre si vota Croazia il referendum che propone di inserire nella Costituzione la definizione del matrimonio come unicamente “un'unione tra un uomo e una donna”. Secondo i sondaggi di questi ultimi giorni oltre i due terzi dei cittadini croati domenica voterà a favore della proposta, meno del 30% si dichiara contrario, mentre la percentuale degli indecisi appare assai esigua. La consultazione popolare, la prima mai organizzata in Croazia, è stata promossa da un gruppo di associazioni vicine alla Chiesa cattolica che nel maggio scorso hanno raccolto 750 mila firme (pari a quasi il 20% dell'elettorato) per ''evitare che un giorno in Croazia vengano legalizzati i matrimoni omosessuali”, specie dopo quanto accaduto in Francia recentemente. Per il “sì”, oltre alla Chiesa cattolica, sono schierati anche i vertici della minoranza ortodossa e di quella musulmana insieme ai partiti di centro-destra. Il governo, i partiti di centro-sinistra e una fetta significativa della stampa e del mondo accademico sono invece schierati per il “no”.
Qui di seguito la trascrizione della corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio aSud Est andata in onda oggi 21 novembre a Radio Radicale.

In vista del referendum sul matrimonio in Croazia, non cessano analisi, polemiche e commenti su questo tema e si fa sempre piu’ intensa la campagna referendaria. E’ anche una battaglia tra governativi che invitano apertamente a votare ‘no’ al referendum e dall’altra parte l’opposizione conservatoria e le organizzazioni non governative che hanno promosso l’iniziativa, tutti loro con un forte appoggio da parte della Chiesta cattolica i quali invitano i cittadini a votare ‘si’ al referendum di domenica. Come vi abbiamo gia’ informato, domenica, primo dicembre, i cittadini croati si recheranno al referendum per rispondere alla domanda se si e’ favorevoli all’inserimento nella Costituzione di un articolo che definische il matrimonio esclusivamente come l’unione tra un uomo e una donna.

Sul tema si e’ espresso anche il capo dello stato Ivo Josipović. Recentemente, in una intervista al quotidiano croato ‘Večernji list’ Josipović ha parlato di questo tema che inevitabilmente sta al centro dell’attenzione pubblica ma soprattutto mediatica. Non volendo generalizzare le ragioni che hanno spinto la societa’ croata al referendum, il presidente Josipović ritiene che indubbiamente c’e’ gente che ha aderito a questa iniziativa per motivi di convinzione. Dall’altra parte, anche in questo caso ci sono quelli che vogliono utilizzare il referendum per la loro politica, una cosa non illegittima ma di cui bisogna esserne consapevoli. Quando si tratta del meritum, precisa Josipović, il piu’ importante e’ che la definizione del matrimonio in quanto unione tra uomo e donna non viene contestata da nessuno. Non si tratta quindi di qualcuno che vuole distruggere la famiglia o il matrimonio, rileva il Presidente, ma il problema e’ che si manda un messaggio che molti e lui stesso vedono come discriminatorio.

Josipović si e’ detto fiducioso che presto si avra’ una legge liberale sulle unioni omosessuali. I paesi di tradizione democratica, quasi senza eccezione, non hanno una definizione del matrimonio nella loro Costituzione, spiega Josipović e aggiunge che in caso contrario si manda inutilmente un messaggio discriminatorio. Il presidente croato fa riferimento anche alla prassi della Corte europea per i diritti umani secondo la quale un matrimonio omossessuale non e’ un diritto convenzionale ma sottolinea che esso esiste in quanto possibilita’ e che molti paesi l’hanno accettata. Dalle spegazioni delle decisioni di questa corte si puo’ intraverdere anche l’evoluzione del pensiero umano sulle unioni omossessuali. Che la scelta dell’unione rimanga una questione di decisione personale, di una scelta che non avra’ come risultato la discriminazione, questa e’ la posizione del presidente Josipović. L’importante e’ garantire l’uguaglianza della gente e il diritto delle persone quale che sia la forma dell’unione in cui hanno scelto di vivere, che non siano per questo dicriminati e che possano regolare legalmente la loro relazione. Si chiami matrimonio o diversamente, di questo si puo’ancora discutere, dice il presidente croato.

Infine, sull’inevitabile posizione della Chiesa cattolica in Croazia, Josipović concorda che la Chiesa segue la sua dottrina ma resta questione aperta fino a che punto essa deve avere un ruolo attivo nel campo della politica e fino a che misura essa abbia il diritto di condannare e perfino attaccare quelli che non condividono il suo punto di vista. Secondo il presidente Josipović, soprattutto a causa dell’influenza e del potere che la Chiesa cattolica ha in Croazia, bisogna vedere se per la societa’ e per la democrazia e infine per la stessa Chiesa, vada bene che essa entri nelle questioni della politica quotidiana e che si assuma un ruolo di attivista. Questo vale soprattutto quando si tratta di un chiaro impegno politico dalla parte di una sola opzione. Cio’ vuol dire allora che la Chiesa entra nell’arena politica e viene sottoposta a tutte le regole del gioco politico. Attacca e viene attaccata, accusa ma viene anche accusata. Se questo vada bene per la sua missione, la Chiesa lo deve valutare da sola, conclude il presidente Josipović.

BELGRADO ATTENDE L’APERTURA DEI NEGOZIATI DI ADESIONE ALL’UE

Gli Usa appoggiano l'integrazione europea della Serbia e l'accordo con il Kosovo


Di Marina Szikora
La Serbia guarda con attenzione al prossimo Consiglio europeo di fine dicembre aspettandosi l’avvio ufficiale dei negoziati di adesione all’UE. Il capo della delegazione dell’Unione in Serbia, Michael Davenport, ha affermato in questi giorni che Bruxelles appoggerà le riforme in Serbia e si aspetta che le intenzioni dell’esecutivo serbo diventino realtà. Non si tratta quindi soltanto della normalizzazione delle relazioni con Priština, bensì anche di passi concreti nel processo di riforme. Davenport ha precisato che il governo serbo deve adottare la strategia per la riforma della pubblica amministrazione. Tutto questo rappresenta grandi sfide, afferma il rappresentante dell’UE ribadendo che l’Unione appoggerà queste riforme e aggiungendo che è indispensabile la loro attuazione non soltanto l’adozione delle leggi. Bisogna migliorare il lavoro delle corti sia a livello nazionale che quello locale; verrà osservato anche il consolidamento e l’attuazione della strategia sui media, il rispetto dei diritti delle minoranze etniche e della comunità Lgbt, nonché il miglioramento del clima per la imprese il che consentirà la creazione di nuovi posti di lavoro nel settore privato.

Il rappresentante dell’UE ha informato che è in corso il lavoro relativo alla cornice negoziale per la Serbia di cui attualmente si discute nei paesi membri e si aspetta che il Consiglio europeo il prossimo 19 e 20 dicembre esamini la possibilità di convocare la prima conferenza intergovernativa entro la fine di gennaio. Davenport ha ricordato che le conclusioni del Consiglio dello scorso giugno puntano sulle aspettative che la Serbia applichi pienamente l’accordo di Bruxelles. A tal proposito la questione sarà cruciale quando si esamineranno i risultati raggiunti da Belgrado: un avanzamento nell’attuazione dell’accordo è evidente, ha detto il rappresentante europeo, sottolineando anche l’importanza che una buona parte dei cittadini serbi in Kosovo si siano recati alle urne e abbiano votato. Tutto sommato, le valutazioni sono positive.

Alla Serbia quindi è stato precisato chiaramente che i negoziati di adesione dipendono dal processo di normalizzazione delle relazioni con Priština e in questo senso si pretende anche che Belgrado non impedisca al Kosovo di entrare nelle istituzioni internazionali. Tuttavia, proprio in questi giorni i media serbi scrivono che la Serbia ha rafforzato la sua battaglia diplomatica il cui obiettivo è proprio quello di ostacolare l’ingresso del Kosovo nelle organizzazioni mondiali ed europee. Ricordiamo che attualmente il Kosovo può partecipare soltanto alle organizzazioni regionali con la nota obbligatoria nei documenti delle riunioni che specificano lo status attuale del Kosovo. Il capo della diplomazia serba Ivan Mrkić ha parlato in questi giorni di un'azione di lobbing a favore dell'ingresso di Priština in diverse organizzazioni come l’OSCE o il Consiglio d’Europa. Se ciò sarà confermato, ha dichiarato Mrkic, Belgrado chiedera’ spiegazioni a Bruxelles alle prossime riunioni con l’Alto rappresentante per la politica estera dell’UE, Catherine Ashton.

Gli Stati Uniti, da parte loro, appoggiano gli sforzi del governo della Serbia per implementare l’accordo raggiunto tra Belgrado e Priština con la mediazione di Bruxelles: è quanto emerso dall’incontro del premier serbo Ivica Dačić con il sottosegretario americano per le questioni europee ed euroasiatiche, Hoyt Brian Yee. In occasione di una prima visita del rappresentante dell’amministrazione americana a Belgrado, Ivica Dačić ha avuto la conferma che gli Stati Uniti sostengono pienamente la via europea della Serbia, l’impegno verso le riforme dall’esecutivo di Belgrado e al tempo stesso salutano il processo di dialogo con Priština verso la soluzione del problema Kosovo. Secondo le dichiarazioni del premier Dačić, il governo della Serbia si impegna a migliorare le relazioni con gli Stati Uniti e ha indicato le diverse possibilità per migliorare in particolare la collaborazione economica. Dačić ha rilevato che nei primi nove mesi di quest’anno l’esportazione della Serbia verso gli Stati Uniti e’ aumentata del 70 percento rispetto allo stesso periodo dell’anno scorso e si è detto fiducioso che le imprese americane investiranno nell’economia serba.

Il testo è tratto dalla trascrizione della corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 28 novembre a Radio Radicale

IL VERTICE CINA EUROPA CENTRO-ORIENTALE A BUCAREST

I leader dei Paesi partecipanti al vertice di Bucarest
Di Marina Szikora
Martedì 26 novembre nella capitale della Romania, Bucarest, si è svolto il vertice tra i premier di 16 paesi dell’Europa centro-orientale con il premier cinese Li Keqiang. Oltre ai premier a questa riunione hanno partecipato circa mille imprenditori di cui 400 provenienti dalla Cina. Un primo vertice di questo tipo si e’ svolto nel giungo 2011 a Budapest, l’anno scorso poi e’ seguito il vertice di Varsavia. Secondo i media cinesi, la Cina ed il cosiddetto Club 16 da allora segnano progressi nel commercio e negli investimenti. I Paesi interessati sono quelli dell’ex Jugoslavia, ovvero Albania, Bosnia Herzegovina, Croazia, Macedonia, Montenegro, Serbia e Slovenia, le ex repubbliche sovietiche di Estonia, Lettonia e Lituania e gli ex appartenenti al “Patto di Varsavia” Bulgaria, Repubblica Ceca, Polonia, Romania, Slovacchia e Ungheria. In agenda la cooperazione economica e commerciale in settori chiave come l’energia, le infrastrutture e i trasporti, lo sviluppo tecnologico e l'agroalimentare.

In rappresentanza della Croazia, al vertice di Bucarest hanno partecipato il premier Zoran Milanović e il ministro del trasporto e infrastrutture Siniša Hajdaš Dončić. I dati ufficiali dimostrano che la Cina è il settimo partner commerciale della Croazia e il maggior partner fuori dall’Europa. L’anno scorso lo scambio di merce tra Croazia e Cina è stato di 1,5 miliardi di dollari di cui l’esportazione croata in Cina ha raggiunto 49 milioni di dollari mentre l’importazione della Cina è stata del 1,45 miliardi di dollari il che viene valutato come un grande deficit del commercio estero dalla parte croata. La recente visita ufficiale in Cina della ministro degli esteri croata Vesna Pusić dimostra altrettanto che in Croazia vi e’ un desiderio di maggiore collaborazione economica tra i due paesi.

Le compagnie cinesi hanno mostrato prontezza di investire nell’infrastruttura croata, nei porti di Ploče, Fiume e Vukovar, nonche’ nelle vie ferroviarie tra Croazia e Ungheria e alcuni altri progetti.
Va rilevato che la Cina ha iniziato a costruire maggiori rapporti con l’Europa centrale ed orientale dopo la grande ondata di allargamento nel 2004 e poi ulteriormente nei Balcani a partire dal 2007 a fin di rafforzare la sua presenza economica nella regione. Attualmente i paesi dell’Europa centro-orientale hanno bisogno urgentemente di investimenti per sollecitare la loro crescita economica e risulta che i pregi della Cina stanno proprio nel capitale e nella tecnologia. Lo afferma il vicepresidente dell’Istituto cinese per le relazioni internazionali Said Ruan Zongze.

Per quanto riguarda l’ultimo vertice svoltosi l’anno scorso in Polonia, la Serbia e’ stata il paese che e’ riuscito maggiormente a prelevare i fondi finanziari dalla Cina. Recentemente Pechino ha rilevato che Belgrado e’ il primo partner strategico nella regione. Il vertice di Bucarest e’ quindi una nuova occasione per tutti i paesi partecipanti di questo vertice: Croazia, Albania, BiH, Bulgaria, Repubblica Ceca, Estonia, Ungheria, Lettonia, Lituania, Macedonia, Montenegro, Polonia, Romania, Serbia, Slovacchia e Slovenia.

Il testo è tratto dalla trascrizione della corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud Est andata inonda il 28 novembre a Radio Radicale

PASSAGGIO A SUD EST

E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 28 novembre.
La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui oppure sul sito di Radio Radicale.



Sommario della trasmissione

Croazia: domenica 1° dicembre si tiene il referendum per inserire nella Costituzione la definizione del matrimonio come "unione tra un uomo ed una donna". Se vinceranno i sì, come indicano i sondaggi, sarà impedita l'unione tra persone dello stesso sesso. Favorevoli cattolici, le minoranza religiose e i partiti del centro-destra. Per il no il governo e la maggioranza parlamentare.

Albania: la Commissione Esteri del Parlamento Europeo raccomanda la concessione dello status di Paese candidato all'adesione all'Unione Europea; l'ottimo stato delle relazioni bilaterali con l'Italia e le iniziative della nostra ambasciata a Tirana.

Serbia: Belgrado confida che il Consiglio europeo di dicembre fissi la data di avvio dei negoziati di adesione all'UE; Washington appoggia l'integrazione europea e il dialogo con Pristina e Belgrado spera in investimenti dagli Usa.

Kosovo: il Consiglio di sicurezza dell'Onu fa il punto sulla situazione, mentre il premier kosovaro Hashim Thaci e quello serbo Ivica Dacic polemizzano e si scambiano accuse; dal Palazzo di vetro l'invito a gestire al meglio i prossimi ballottaggi per le elezioni locali.

Europa centro-orientale: il vertice di Bucarest tra la Cina e i Paesi della regione conferma il forte interesse del gigante asiatico a investimenti in infrastrutture e partecipazioni in imprese strategiche.

Turchia: la crisi con l'Egitto, seguita alla destituzione del presidente Morsi, provoca la rottura delle relazioni diplomatiche tra Ankara ed Il Cairo; intanto Erdogan avvia la campagna elettorale per le amministrative di marzo, ma non ha ancora un candidato per l'importantissima carica di sindaco di Istanbul;  dopo la storica visita del premier del Nord-Iraq a Diyarbakir, Ankara si assicura le forniture del petrolio del Kurdistan iracheno.

In chiusura si parla di "In fondo alla speranza", il libro a fumetti di Jacopo Frey e Nicola Gobbi su Alex Langer (ed. Comma 22).

La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura è ascoltabile direttamente qui



mercoledì 27 novembre 2013

BOSNIA: STAGNO SPARISCE IN UN BUCO. METAFORA DELLO STATO DEL PAESE?

In Bosnia, nel villaggio di Sanica, lo stagno locale è sparito improvvisamente inghiottito da un enorme buca. Acqua, pesci e alberi circostanti sono sprofondati di colpo, lasciando il posto a un misterioso cratere, nel quale rischiano di finire anche le casette che sorgevano sulla riva del mInuscolo specchio d'acqua. Mentre si cerca di capire ciò che potrebbe essere accaduto, la vicenda sembra una inquietante metafora della Bosnia attuale e del suo futuro.

Guarda il video di Euronews

martedì 26 novembre 2013

PICCOLI NAZISTI CRESCONO: ANCHE IN SLOVACCHIA

Non c'è solo Alba Dorata in Grecia, Jobbik in Ungheria o il “Partito delle libertà” di Gert Wilders in Olanda: anche in Slovacchia sale il consenso per formazioni politiche razziste, xenofobe e intolleranti. Alle elezioni amministrative di sabato scorso, infatti, il neonazista Marian Kotleba è diventato governatore della Regione di Banska Bystrice. A convincere il 55,5% dei votanti del più grande degli otto distretti regionali in cui è suddiviso il Paese, è stata una campagna elettorale basata sull'odio contro i “parassiti” rom: Kotleba ha promesso di difendere i propri concittadini “dal terrore degli zingari” e che farà di tutto per privarli dall'assistenza sociale di cui godono. Per altro, già ora nella maggior parte dei casi i rom in Slovacchia (circa il 9% su una popolazione totale di circa 5 milioni e mezzo di abitanti) vivono in condizioni di assoluta povertà e di totale esclusione sociale. Ma in una regione dove la disoccupazione raggiunge il 40%, rispetto ad una media nazionale del 14%, e dove vive la più consistente comunità rom del Paese, le parole di Kotleba hanno trovato terreno fertile.

Da tempo sono note le posizioni xenofobe di Kotleba, che si dichiara ammiratore di Jozef Tiso, il sacerdote cattolico che, dopo l'annessione della Boemia e della Moravia al Terzo Reich, divenne presidente della Repubblica slovacca filo nazista per poi finire impiccato per alto tradimento al termine della seconda guerra mondiale. Kotleba, considera inoltre la Nato alla stregua di un'organizzazione terroristica e vorrebbe che la Slovacchia abbandonasse l'Unione Europea e la moneta unica. I militanti del suo partito, messo fuori legge in passato ma successivamente reintegrato, portano uniformi che ricordano quelle dei nazisti hitleriani. A preoccupare sono anche i legami stretti che collegano Kotleba ad altre formazioni xenofobe presenti nei paesi europei, come il Front National in Francia e gli ungheresi di Jobbik. Sabato scorso, il partito socialdemocratico del premier Fico ha prevalso in sei regioni su otto, ma l'affermazione di Kotleba ha messo in allarme gli attivisti per i diritti umani e i rappresentanti delle minoranze etniche.

Ciò che preoccupa è che la galassia dei vari movimenti razzisti e xenofobi riesca a coagulare le forze in vista delle elezioni europee del prossimo anno. Irena Bihariova, responsabile della organizzazione non-profit slovacca “People Against Racism”, ha manifestato il timore che la vittoria di Kotleba possa “far aumentare la temerarietà di altri estremisti, rendendoli ancora più pericolosi”. Anche il presidente slovacco, Ivan Gasparovic, si è detto sconcertato per un risultato elettorale che ha definito “un monito rivolto alla classe politica”. E che la situazione sia molto seria lo dimostra la presa di posizione del Congresso ebraico con sede a Parigi che ha chiesto ai leader europei democratici a far fronte contro questa escalation neonazista “prima che sia troppo tardi”. 

E' già successo e nessuno può garantire che non succeda ancora. Hitler non era che uno spiantato imbianchino austriaco. All'inizio. Le uova del serpente sono sempre pronte a schiudersi. Basta leggere Goldhagen. O anche Brecht: qualcuno ricorda “La resistibile ascesa di Arturo Ui”?

UCRAINA: OPPOSIZIONE PRO UE IN PIAZZA CONTRO IL GOVERNO

Kiev volta le spalle all'UE e il premier Azarov accusa Bruxelles ma l'opposizione accusa il governo di cedere a Mosca. Tymoshenko annuncia lo sciopero della fame ad oltranza.

Foto Sergei Supinski / AFP
Continuano in Ucraina le proteste contro la rinuncia del governo a firmare l'Accordo di associazione con l'Unione Europea, che secondo l'opposizione filoeuropea consegnerà definitivamente il Paese all'influenza della Russia. Diverse manifestazioni si sono svolte negli ultimi giorni in varie città. Epicentro della protesta la piazza Maidan di Kiev, il luogo simbolo della rivoluzione arancione dove ieri si è svolta la più grande manifestazione da quei giorni del 2004. Il nuovo movimento è già stato battezzato EuroMaidan. I dimostranti si sono accampati anche in piazza d'Europa di fronte alla sede del governo. Gruppi di manifestanti hanno anche tentato di entrare nell'edificio, ma sono stati respinti dalla polizia antisommossa. I manifestanti sono rimasti quindi all'esterno dell'edificio dove già in precedenza c'erano stati incidenti.

Il leader dell'Alleanza democratica ucraina per le riforme, il campione del mondo di boxe Vitali Klitschko, ha lanciando una appello a mantenere la pressione sul regime del presidente Viktor Yanukovych fino al vertice del partenariato orientale fissato per giovedì e venerdì e nel corso del quale avrebbe dovuto essere firmato l'Accordo di associazione con l'UE. “Continueremo a manifestare finché l'accordo non verrà firmato”, ha detto Klitschko, annunciando che l'opposizione intende chiedere l'annullamento della decisione di non firmare le dimissioni del governo. Anche Yulia Tymoshenko, l'ex premier avversaria di Yanukovych, condannata a sette anni di reclusione, ha lanciato un appello dal carcere chiedendo di intensificare la pressione sul governo prima del vertice con l'UE annunciando in contemporanea l'avvio di uno sciopero della fame a oltranza.

Il governo ucraino ha deciso la scorsa settimana di rinunciare alla firma dello storico accordo con l'UE. Il premier Azarov ha dichiarato in parlamento che la decisione del governo è stata dettata "esclusivamente da ragioni economiche", ma non rimette in causa l'orientamento europeista del Paese. In un'intervista alla tv russa ha poi accusato Bruxelles di essere responsabile della situazione non volendo sostenere l'integrazione finanziaria dell'Ucraina promettendo solo un miliardo di euro per i prossimi sette anni. Sta di fatto che da tempo la Russia, destinataria di un quarto delle esportazioni ucraine, preme perché Kiev aderisca invece all'Unione doganale creata con Bielorussia e Kazakistan e alla quale sembra ormai intenzionata a partecipare anche l'Armenia. Per i leader dell'opposizione Kiev sta semplicemente cedendo alle pressioni della Russia e hanno quindi chiamato la gente a proseguire la mobilitazione.

Da Bruxelles, per altro, confermano che la porta è ancora aperta: “L'offerta di firmare un accordo di associazione e una zona di libero scambio senza precedenti è sempre sul tavolo”, hanno dichiarato in un comunicato congiunto i presidenti del Consiglio europeo, Herman Van Rompuy, e il presidente della Commissione, José Manuel Barroso, aggiungendo di “disapprovare fortemente la posizione e le azioni della Russia”, accusata di aver esercitato indebite pressioni su Kiev. Ieri il presidente Viktor Yanukovich ha lanciato un appello alla pace, ma ha ribadito la versione del governo per il quale la firma è stata bloccata per motivi esclusivamente economici. Impossibile non notare, tuttavia, che l'accordo è saltato proprio quando il Parlamento avrebbe dovuto discutere la possibilità di cura all'estero del detenuti, norma che permetterebbe la scarcerazione di Tymoshenko, che è una delle condizioni poste dall'UE per proseguire il processo di integrazione.

lunedì 25 novembre 2013

COURRIER DES BALKANS COMPIE 15 ANNI

Gli auguri di Passaggio a Sud Est

Nei giorni scorsi Courrier des Balkans ha festeggiato i suoi primi 15 anni di vita. Si tratta dell'unico portale francofono di informazione sul sud-est Europa, nato nel 1998 (quando in Serbia era al potere Slobodan Milošević, in Croazia c'era Franjo Tuđman e non era ancora scoppiata la guerra in Kosovo). Nato per informare il pubblico in lingua francese sulla realtà politica, sociale, economica e cultural e dell'Europa sud orientale, fino dall'inizio ha lavorato per creare una rete di media indipendenti che rifiutavano ogni forma di nazionalismo e che non volevano farsi condizionare dal potere politico ed economico o, peggio ancora, dai clan criminali. Da allora molte cose sono cambiate, anche se molti problemi si trascinano ancora da quegli anni '90 che hanno aperto ferite che in molti casi sono ancora aperte.

In questi 15 anni il Courrier des Balkans ha prodotto più di 15 mila articoli pubblicati grazie ad una rete di 50 collaboratori sparsi in tutta la regione, continuando a coltivare – ci tengono molto a sottolinearlo – la voglia di capire un mondo complesso e pieno di contraddizioni perché l'impegno a favore di una informazione libera da condizionamenti non è meno importante oggi di quanto lo fosse nel 1998: “E' importante anche oggi, anche se le minacce che pesano sulla libertà di informazione non sono più le stesse. Se la pressione politica ha fatto spazio a pressioni più indirette e al potere del denaro, siamo obbligati a riconoscere che la libertà di informare e il pluralismo sono tutt'ora fragili come quindici anni fa”.

Da Passaggio a Sud Est - questo blog, ma anche la rubrica settimanale di Radio Radicale – i più sinceri auguri di continuare ad essere quall'importante fonte di informazione, dibattito e confronto che Courrier des Balkans ha saputo essere fino ad oggi.


domenica 24 novembre 2013

IN FONDO ALLA SPERANZA: UNA IPOTESI SU ALEX LANGER

Raccontare una storia con il fumetto: oggi si parla di "graphic novel", all'inglese, ma è una forma letteraria non nuovissima che in Italia ha avuto alcuni grandi maestri (basti pensare a Hugo Pratt e a Guido Crepax). Con i fumetti si può raccontare anche la Storia: e anche in questo ambito l'Italia ha una grande tradizione con artisti del calibro di Dino Battaglia o Sergio Toppi. In questo solco si inserisce l'opera di due giovani autori italiani: la storia di un uomo che ha sullo sfondo la storia europea di venti anni fa.

Sto parlando di "In fondo alla speranza. Ipotesi su Alex Langer", un racconto a fumetti di Jacopo Frey e Nicola Gobbi, pubblicato dalle edizioni Comma 22. La storia è, appunto, quella di Alex Langer, politico, pensatore, militante della pace (ma non pacifista ad ogni costo), sostenitore del dialogo tra i popoli e dell'abolizione delle frontiere fisiche e mentali, morto suicida il 3 luglio del 1995. Jacopo Frey (sceneggiatore) e Nicola Gobbi (disegnatore) compongono non una biografia classica, ma piuttosto il racconto di un viaggio in un paese in guerra (l'ex Jugoslavia, anche se non è esplicitamente indicata) che da missione di pace diventa la personale ricerca dei fili da riannodare per tentare di ritrovare una convivenza possibile. La scrittura di Frey e i disegni in bianco e nero di Gobbi danno così corpo alle riflessioni di Langer, ma anche alla stanchezza, alle paure e alla disperazione che lo porteranno a togliersi la vita il 3 luglio 1995. E piuttosto che spiegare, preferiscono, molto più utilmente, suscitare domande e curiosità, tracciando appunto una "ipotesi" su una personalità di grande spessore umano e politico come quella di Alex Langer e sulla sua storia personale da troppi e troppo presto accantonata.

Un racconto che vi consiglio caldamente di leggere: per ricordare chi è stato Alex Langer attraverso l'ottimo lavoro di Jacopo e Nicola che potete ascoltare qui nell'intervista per Radio Radicale




Jacopo Frey e Nicola Gobbi sono entrambi di Ancona. Jacopo Frey si è laureato in storia all'Università di Bologna. Nicola Gobbi si è diplomato all'Accademia di Belle Arti di Bologna dopo aver studiato alla Scuola Comics di Jesi. Con "In fondo alla speranza" hanno vinto il premio "Reality Draws", promosso dall'Anci, dalla Presidenza del Consiglio dei ministri e dal Comune di Ravenna per promuovere giovani talenti del fumetto. Proprio questo riconoscimento ha permesso loro di portare a termine e di pubblicare questa che è la loro prima opera lunga dopo varie esperienze in riviste indipendenti e autoproduzioni italiane ed europee in cui hanno concentrato la passione del fumetto con l'impegno sociale.

Per contattare gli autori o ordinare copie del volume scrivete a Jacopo Frey
jacopofrey@gmail.com

sabato 23 novembre 2013

LE ELEZIONI IN AZERBAIJAN, IL PARLAMENTO EUROPEO, L'OSCE... E PINO ARLACCHI

Foto Afp / Tofik Babayev
Il 9 ottobre 2013 in Azerbaijan si sono tenute le elezioni presidenziali. Grazie alla modifica della costituzione del 2009, confermata da un referendum ma criticata dal Consiglio d'Europa e dalla Commissione di Venezia per la sua dubbia democraticità, il presidente Ilham Aliyev ha potuto ricandidarsi per la terza volta consecutiva ed essere rieletto con l’84.5% dei voti. La missione di osservazione a lungo termine (3 mesi) dell’OSCE/ODIHR, guidata da Tana de Zulueta, nel rapporto molto dettagliato del 10 ottobre, ha concluso che le elezioni “sono state compromesse da limitazioni alle libertà di espressione, di riunione e di associazione, che non hanno garantito la parità di condizioni per i candidati”. Un giudizio opposto a quello espresso nel comunicatocongiunto della missione a breve termine (4 giorni) dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa (PACE) e di quella del Parlamento europeo, guidata dal deputato socialista Pino Arlacchi, secondo cui “nel complesso nel giorno delle elezioni abbiamo osservato un processo elettorale libero, equo e trasparente”. Per la prima volta, le missioni di monitoraggio internazionale non hanno trovato una mediazione ed hanno emesso comunicati contrastanti.
 
Il caso, ovviamente, suscita reazioni. L’11 ottobre, l'Alto rappresentante per gli Affari Esteri dell’UE, Catherine Ashton, e il commissario all'Allargamento, Štefan Füle, hanno diffuso una dichiarazione congiunta in cui fanno riferimento solo ai risultati della missione OSCE-ODIHR con solo un rapido accenno alle missioni di monitoraggio PE/PACE. Una settimana dopo, nella Commissione Esteri del Parlamento europeo che ha discusso il rapporto della missione guidata da Arlacchi, il gruppo dei Verdi reagisce duramente e in un comunicato ha criticato il rapporto ufficiale della missione PE accusando il Parlamento europeo di perdere credibilità con dichiarazioni che ignorano la realtà della situazione azera danneggiando la reputazione del Parlamento europeo nella lotta per i diritti umani, la democrazia e lo stato di diritto. Anche il gruppo socialista, cui appartiene Arlacchi, ha preso le distanze dalle conclusioni della missione PE/PACE, giudicandole così lontane da quelle dell'OSCE da non poter essere minimamente sostenute. Arlacchi però non ci sta e in un'intervista concessa all'agenzia azera Apa, ha ribadito la sua posizione e ha attaccato l'ODIHR accusandolo di essere formato “da un gruppo di cosiddetti esperti senza responsabilità politica, che non sono stati eletti da nessuno”, dunque facilmente manipolabili, “che vogliono solo essere sicuri di ottenere lavoro alla prossima occasione”.
 
La sicumera di Arlacchi non ha però potuto evitare alla questione di aggravarsi. Tanto più che è venuto fuori il caso dei parlamentari europei che, in occasione delle elezioni del 9 ottobre, si sono recati non ufficialmente in Azerbaijan. L’European Voice, autorevole testata del gruppo Economist, in un articolo del 17 ottobre, ha scritto senza mezzi termini che “una grossolana stupidità o una meschina venalità sembrano essere le uniche spiegazioni plausibili per far sì che un membro del Parlamento europeo scelga di andare a Baku come osservatore non ufficiale alla farsa delle elezioni presidenziali in Azerbaijan della scorsa settimana”. Il giornale riporta la lista (precisando che probabilmente è incompleta) coi nomi dei deputati che “pare si siano dati al turismo elettorale” viaggiando a spese della Società per la promozione delle relazioni tedesco-azero, un'associazione tedesca “che appare come una subdola organizzazione di facciata per gli interessi del governo azero”. Tra questi ci sono alcuni aderenti al gruppo ALDE del quale ha fatto parte anche Arlacchi prima di passare al gruppo socialista. Secondo un funzionario interno al PE, citato da Osservatorio Balcani e Caucaso sotto garanzia di anonimato, “non c'è da stupirsi, è risaputo che vari membri del PE sono sulla 'business list azera'. Vale a dire regali, viaggi, hotel di lusso, eccetera”. La stessa fonte non nasconde che sontuosi cesti natalizi, caviale compreso (quello azero è uno dei migliori), raggiungono tranquillamente gli uffici di Bruxelles.
 
Il Parlamento europeo a questo punto reagisce screditando indirettamente le conclusioni della sua stessa missione e nella risoluzione sulle Politiche di vicinato adottata il 23 ottobre viene messo nero su bianco il rammarico per il fatto che “stando alle conclusioni della missione a lungo termine dell'ODIHR, le recenti elezioni presidenziali tenutesi il 9 ottobre 2013 non abbiano, nemmeno in questo caso, soddisfatto gli standard dell'OSCE, essendo state imposte restrizioni alla libertà di riunione e di espressione; chiede, in tale ottica, alle autorità azere di affrontare e attuare rapidamente tutte le raccomandazioni incluse nell'attuale relazione e in quelle passate elaborate dall'ODIHR/OSCE”. Parole che non piacciono per niente al governo azero che, per bocca del suo capo delegazione in Euronest (l'assemblea istituita nel 2009 che riunisce i deputati del PE con quelli di Armenia, Azerbaijan, Georgia, Moldavia e Ucraina), accusa il PE di voler “creare disordini e sabotare l’Azerbaijan” anche se non è riuscito nel suo “piano di sabotaggio” per “trasformare l’Azerbaijan nella Libia o nella Siria” visto quanto ha dichiarato la missione guidata da Pino Arlacchi. Quindi la delegazione azera sospende la sua presenza in Euronest.
 
Il 7 novembre a Bruxelles, la responsabile della missione di monitoraggio elettorale OSCE/ODIHR in Azerbaijan, si è incontrata con i portavoce dei gruppi della Commissione Esteri alla presenza del Democracy Support and Election Coordination Group (DEG). Stando a quanto si è appreso, la riunione è stata piuttosto accesa, ma non ha prodotto risultati, tanto che è stata aggiornata al prossimo 12 dicembre. In attesa di una possibile conclusione della vicenda, restano al momento due punti fermi. Il primo è che a sette mesi dalle elezioni per il rinnovo del Parlamento europeo, la crisi delle missioni di monitoraggio in Azerbaijan rischia di compromettere l’immagine di un pilastro importante dell'azione esterna e dell'immagine dell'Unione europea. Lo ha scritto anche l'European Stability Initiative in un recentissimo rapporto. Il secondo è che, al centro di questo pasticcio, c'è Pino Arlacchi, del quale si ricorda la spregiudicata gestione dell'ufficio antidroga dell'Onu, denunciata da un suo collaboratore e documentata in un corposo dossier del Partito Radicale Transnazionale. Una gestione tanto discutibile che, alla scadenza, l'incarico non gli fu rinnovato come da prassi consolidata del Palazzo di vetro, ma solo prorogato. Pare che l'allora segretario generale Kofi Annan abbia chiesto esplicitamente ad Arlacchi di dare spontaneamente le dimissioni per levarlo dall'imbarazzo di non riconfermarlo per un secondo mandato. Passano gli anni ma, evidentemente, non cambiano i metodi con cui il sociologo di Gioia Tauro gestisce gli incarichi che riceve (o almeno alcuni di questi).
 
Per informazioni più dettagliate si rimanda alla lettura dell'articolo di Luka Zanoni per OsservatorioBalcani e Caucaso al quale questo post è debitore.
 
 
Informazioni sulla gestione dell'Ufficio Onu per il controllo delle droghe e la prevenzione del crimine diretto da Arlacchi dal 1997 al 2002 sono reperibili sul sito del Partito Radicale Transnazionale.


giovedì 21 novembre 2013

VUKOVAR: LA GIORNATA DELLA MEMORIA CELEBRATA ALL'INSEGNA DELLE DIVISIONI

Di Marina Szikora
Domenica e lunedi’ la Croazia ha ricordato la tragica caduta di Vukovar avvenuta 22 anni fa. Vukovar la citta’ martire e simbolo della guerra di aggressione contro la Croazia, quest’anno ha accolto circa 100.000 persone nella ormai tradizionale marcia di ricordo per le strade della città, a partire da tutti i vertici dello Stato fino a cittadini semplici. Quest’anno però purtroppo, tutto si è svolto nell’ombra delle vicende legate all’introduzione delle scritte bilingue, croate e serbe a Vukovar, alla distruzione delle scritte in cirillico e allo scontro settimana scorsa tra due veterani di guerra e un poliziotto finito con gravi ferite di uno degli ex combattenti. Un’immagine per nulla all’altezza della dignità di quelli che hanno sacrificato la loro vita per una Croazia libera ed indipendente, poiché Vukovar lunedì è stata più che mai divisa, in due cortei, tra quelli che fortemente si oppongono alla politica dell’attuale potere, vale a dire all’uso del cirillico a Vukovar, e le massime cariche dello Stato dall’altra parte che ad un certo punto hanno dovuto rinunciare alla marcia verso il cimitero memoriale, bloccati dal corteo delle associazioni dei veterani della guerra e dei gruppi nazionalisti.

Il presidente croato Ivo Josipović che insieme al premier Zoran Milanović e al presidente del Parlamento Josip Leko ha deciso di non proseguire la marcia e di porre invece individualmente le corone e le candele al cimitero di Ovčara, ha dichiarato che questo è un atto di ostruzionismo e una dimostrazione che a coloro che l’hanno organizzato non sta a cuore né Vukovar né la pietà, la pietà però esiste nei cuori dei rappresentanti dello Stato e nessuno la può distruggere, ha rilevato Josipović. “Tutti che si sono trovati qui hanno sentito la tristezza. Si tratta di un’azione che ha trasformato Vukovar in qualcosa che non doveva succedere”, ha detto il capo dello Stato croato e ha aggiunto che per la politica quotidiana ci sono meccanismi e quelli che hanno organizzato questo tipo di protesta hanno l’occasione di agire alle elezioni invece di utilizzare situazioni del genere.
“Vukovar è il simbolo della riconciliazione del popolo croato e della società. Lo è stato e tale rimarrà”, ha detto il presidente del Parlamento, Josip Leko

In concomitanza con l’anniversario della caduta di Vukovar, l’associazione dei veterani di Vukovar ha iniziato una raccolta di firme per l’indizione del referendum con il quale si vuole regolamentare la possibilità di introduzione del bilinguismo in tutta la Croazia. Con la domanda referendaria si vuole modificare l’articolo della legge costituzionale sui diritti delle minoranze in modo tale da introdurre la lingua di una singola minoranza nel caso quando questa popolazione rappresenti almeno la metà della popolazione locale. Va detto che il governo croato ha introdotto il bilinguismo, quindi l'alfabeto latino usato in croato e il cirillico usato in serbo, per adeguarsi a una legge che ne prevede l’utilizzo laddove una minoranza rappresenti un terzo della popolazione, come appunto per Vukovar. Ma i veterani considerano la segnaletica in cirillico come un insulto alle vittime di guerra croate e chiedono che Vukovar sia esentata dalla legge e proclamata luogo di particolare pietà. Così per la prima volta, quest’anno, Vukovar nel momento del tragico ricordo è stata divisa in due.

I due cortei sono una vergogna per la società e lo stato croato, ritengono diversi analisti i quali si sono detti molto dispiaciuti che tali divisioni siano avvenute proprio nella giornata del ricordo delle vittime di Vukovar. Così il noto politologo croato Anđelko Milardović si chiede chi strumentalizza e chi conduce tali divisioni. Secondo la sua opinione bisogna urgentemente porre fine a tutti i radicalismi della società, quelli dell’opposizione, sia parlamentare che extra parlamentare. Anche lo storico Davor Pauković afferma che la giornata di memoria delle vittime di Vukovar è solo la continuazione di quello che accade in questa città negli ultimi mesi e ritiene che questo fatto sia una conseguenza dell’insuccesso della politica di coabitazione a Vukovar.

Il testo è tratto dalla trascrizione della corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud est andata in onda il 21 novembre a Radio Radicale


GENOCIDIO: A MARZO IL PROCESSO SULLE DENUNCE INCROCIATE TRA CROAZIA E SERBIA

Intanto Belgrado rivendica il rispetto degli impegni assunti con l'UE e chiede che Bruxelles lo riconosca

Di Marina Szikora
Le autorità della Serbia stanno rispettando l’impegno assunto e la parola data, e si aspettano lo stesso da parte dell’Unione Europea, afferma in questi giorni il primo vicepresidente del governo serbo, Aleksandar Vučić, aggiungendo che Belgrado si aspetta da parte dell’UE lo stesso rispetto nei confronti dei cittadini e dello Stato. I cittadini della Serbia se lo meritano, sottolinea Vučić, poiché maggiormente grazie a loro vi è stato l’avanzamento nel processo di integrazione europea. Vučić si aspetta che al più presto si arrivi alla prima conferenza intergovernativa che segnerà il via ufficiale dei negoziati di adesione della Serbia all’Ue. Il primo vicepremier spera che questa conferenza si svolga entro dicembre o al massimo a gennaio, come affermato dal capo della delegazione del Parlamento Europeo per le relazioni con i Balcani Occidentali, Eduard Kukan. Davanti alla Serbia ci sono tempi difficili ed è importante sapere che il governo sta intraprendendo tutte le riforme per il bene dei cittadini, decisioni difficili sono necessarie per una economia sana, per una Serbia sana, ha rilevato Vučić, aggiungendo che i valori dell’Ue sono gli stessi valori della Serbia e del popolo serbo e la Serbia non è parte dell’Europa solo geograficamente, ma anche per le sue idee ed i suoi valori.

Ma oltre ad impegnarsi del future europeo, la Serbia dovrà comunque fare i conti con il passato. Il prossimo 3 marzo, infatti, secondo notizie apparse sui media serbi, all’Aja dovrebbe iniziare il processo davanti alla Corte internazionale di giustizia (ICJ) relativo alla denuncia della Croazia e alla contro-denuncia della Serbia per genocidio durante la guerra del 1991-1995. La corte sarà presieduta dal giudice slovacco Peter Tomka. Saranno ascoltati ed interrogati i testimoni delle due parti: 12 quelli chiamati da Zagabria, mentre per Belgrado saranno 8, secondo le informazioni mediatiche serbe. Il premier Ivica Dačić ha dichiarato che la Serbia è pronta a ritirare la denuncia se anche Croazia farà lo stesso: secondo il premier serbo questa sarebbe la soluzione migliore per entrambe le parti. Anche i parlamentari serbi del partito governativo annunciano che si impegneranno per ottenere il ritiro delle denunce a condizione però che la Croazia restituisca i loro beni ai profughi e ne risarcisca i danni e che sia risolta la questione delle persone scomparse.

Nonostante speculazioni, soprattutto mediatiche, secondo le quali la Croazia sarebbe intenzionata a ritirare le denunce di genocidio per crimini commessi nella guerra tra il 1991 e 1995, arrivano notizie sulla preparazione di un team internazionale rafforzato in vista dell'avvio del processo il prossimo marzo. Si tratta di prestigiosi esperti del diritto internazionale, afferma Jana Špero, rappresentante del ministero della Giustizia croato che sarà uno dei tre rappresentanti della Croazia in questo processo. Špero precisa che si tratta di un processo molto complesso e di una denuncia molto importante il che richiede l’impegno di esperti. Tra questi anche il britannico Keir Starmer, esperto di diritti umani e di diritto internazionale, nominato nel 2007 giurista dell’anno nel campo dei diritti umani e per cinque anni capo procuratore del Regno Unito.

Le autorità croate chiedono una migliore collaborazione con le autorità serbe sul destino delle persone scomparse durante il conflitto, in maggioranza di nazionalità croata, come condizione per eventuali trattative sul ritiro della denuncia di genocidio. Uno dei testimoni della Croazia, sempre secondo le informazioni della stampa, potrebbe essere Sonja Biserko, presidente del Comitato Helsinki per i diritti umani in Serbia. Recentemente, il procuratore per i crimini di guerra serbo Vojislav Vukčević ha detto che soltanto a Belgrado ci sono in libertà almeno 300 persone che potrebbero essere sospette di crimini di guerra. Il ministro della giustizia croato, Orsat Miljenić, ha ricordato che il ruolo del team di esperti è quello di presentare la denuncia per genocidio nel miglior modo possibile e spiegare al mondo che cosa sia veramente accaduto. Dopo la conclusione della fase verbale del processo, tutti i materiali raccolti nell’arco di diversi anni diventeranno pubblici, ha detto il ministro croato.

Ricordiamo che il 2 luglio 1999 la Croazia ha denunciato la Serbia alla Corte internazionale di giustizia per crimini di genocidio che sarebbero stati commessi in Croazia tra il 1991 e 1995, accusando la Serbia di essere responsabile di “pulizia etnica” contro i cittadini croati: “una forma di genocidio il cui risultato è stato un gran numero di cittadini croati trasferiti, uccisi, torturati e illegalmente imprigionati, nonché la devastazione delle proprietà”. Per questo Zagabria chiede il risarcimento dei danni di guerra, mentre Belgrado ha reagito presentando a sua volta una analoga denuncia contro la Croazia.

Il testo è tratto dalla trascrizione della corrispondenza per la puntata di Passaggio a Sud est andata in onda il 21 novembre a Radio Radicale


PASSAGGIO IN ONDA

E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 21 novembre.
La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui oppure sul sito di Radio Radicale.



Sommario della trasmissione

Croazia: la commemorazione della caduta di Vukovar nel segno della divisione etnica.

Kosovo: l'esito delle elezioni comunali ripetute a Kosovska Mitrovica senza incidenti ma con polemiche sulla regolarità dello spoglio e sull'atteggiamento delle autorità di Pristina; le risorse naturali (la miniera di Trepce e la diga di Gazivode) entrano nel negoziato con Belgrado.

Serbia: Belgrado spera che l'Unione Europea riconosca gli sforzi fatti per l'integrazione; a marzo davanti alla Corte internazionale di giustizia si apre il processo sulle accuse incorciate per genocidio con la Croazia.

Turchia: l'alleanza politico-energetica tra il premier turco Erdogan e il leader curdo-iracheno Barzani sancita a Diyarbakir; le polemiche con la Grecia sul futuro della basilica di Santa Sofia.

Albania: il premier Edi Rama ascolta la piazza e dice no allo smaltimento delle armi chimiche siriane facendo saltare l'accordo già trovato con gli Usa, ma la decisione mette in crisi le relazioni con Washington.

In apertura il quarantennale della rivolta del Politecnico di Atene del novembre 1973 che avviò la caduta del regime dei colonnelli.

La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura è ascoltabile direttamente qui


martedì 19 novembre 2013

ATENE NOVEMBRE 1973: LA RIVOLTA DEL POLITECNICO CONTRO LA DITTATURA DEI COLONNELLI

Atene, novembre 1973: il Politecnico occupato
Alle 3 del mattino del 17 novembre 1973 i carri armati della giunta militare invasero il campus del Politecnico di Atene per reprimere la rivolta studentesca scoppiata il 14 novembre quando gli studenti erano entrati in sciopero chiedendo “pane, istruzione e libertà”. Nelle prime fasi della protesta la giunta militare, che aveva preso il potere nel 1967 con un colo di Stato, rimase a guardare. Gli studenti si barricarono nell'ateneo e, utilizzando materiale trovato nei laboratori, misero in funzione una stazione radio che trasmetteva nell'area di Atene. Migliaia di lavoratori e di giovani si unirono alla protesta dentro e fuori l'università.

Nelle prime ore del 17 novembre, il capo della giunta militare Georgios Papadopoulos ordinò all'esercito di porre fine alla protesta. Quando l'esercito intervenne intimando agli studenti di arrendersi e cedere le armi, questi risposero usando le stesse parole pronunciate da Leonida contro i persiani alle Termopili: "Venite a prenderle". O almeno questo è quello che si racconta ed è bello pensare che sia andata così. Dopo aver lasciato l'università al buio, con lo spegnimento della rete elettrica cittadina, intorno alle 3 di notte un carro armato abbatté i cancelli travolgendo gli studenti che vi si erano arrampicati sopra e provocando diversi feriti

Negli scontri che seguirono l'intervento dell'esercito rimasero uccisi 24 civili, tra i quali almeno uno ucciso a sangue freddo da un ufficiale. Pochi giorni dopo, il 25 novembre a seguito delle proteste interne ed internazionali seguite alla sanguinosa repressione della rivolta studentesca, il generale Dimitrios Ioannides rimosse Papadopoulos per tentare di mantenere il potere nelle mani dei militari malgrado il crescere dell'opposizione al regime. Nel luglio del 1974 il tentativo di Ioannides di rovesciare l'arcivescovo Makarios III, presidente di Cipro, attraverso un colpo di Stato militare condusse la Grecia sull'orlo della guerra con la Turchia che come risposta all'azione greca occupò la parte nord dell'isola per proteggere la popolazione turco-cipriota.




Domenica scorsa, in una città presidiata da migliaia di poliziotti in tenuta antisommossa, una manifestazione a commemorato la rivolta di quarant'anni fa, che innescò il processo che portò alla caduta della dittatura dei colonnelli. In testa al corteo, la bandiera esposta 40 anni fa sul tetto dell’Università per salutare il ritorno alla democrazia in un Paese che oggi è alle prese con i diktat dei creditori internazionali. Gli oltre 10 mila manifestanti sono stati tenuti a distanza dall’ambasciata degli Stati Uniti, accusati di aver sostenuto il golpe militare del 1967. Corone di fiori sono state deposte ai piedi del monumento che ricorda la vittime della repressione del novembre 1973.

venerdì 15 novembre 2013

BOSNIA: A MENO DI UN ANNO DALLE ELEZIONI LA SITUAZIONE POLITICA RESTA FERMA

Ma l'alto rappresentante Onu resta speranzoso e nella Republika Srpska sembra crescere l’opposizione contro Dodik

A poco meno di un anno dalle elezioni politiche in Bosnia Erzegovina, iniziano le prime analisi di quella che potrebbe essere la lotta elettorale in un Paese che resta una grande incognita quando si tratta di stabilita’ politica e di prospettive europee. Qui di seguito la corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 14 novembre a Radio Radicale.

Nella Republika Srpska, l'entita’ a maggioranza serba della Bosnia Erzegovina, si sta formando, cosi’ almeno sembra, un forte blocco di opposizione. Annunci di questo tipo ci sono stati da anni ma alla fine, come si puo’ leggere in un commento della Deutche Welle, finora alla formazione di un tale blocco si sono sovrapposti piccoli interessi politici dell’opposizione. Adesso il leader del Movimento popolare democratico, Dragan Čavić, afferma che e’ giunto il momento per rovesciare l’attuale potere con mezzi democratici. Avverte comunque che il contrario potrebbe avvenire soltanto con brogli elettorali. In questo blocco di opposizione, si dice, ci sara’ posto per tutti i partiti che vogliono congiuntamente opporsi al regime dell’attuale presidente Milorad Dodik.

Dodik e’ stato eletto premier 15 anni fa e all’epoca il suo partito aveva soltanto due seggi in parlamento. Il suo successo, negli anni seguenti, secondo molti e’ dovuto al fatto che era il prediletto della comunita’ internazionale, ma adesso le cose stanno diversamente. Tuttavia, l’uomo forte della Republika Srpska continua ad essere convinto della propria vittoria anche alle prossime elezioni. Secondo la Deutsche Welle, negli ultimi mesi i rappresentanti internazionali in Bosnia Erzegovina, tra cui anche gli ambasciatori dei Paesi piu’ potenti, evitano incontri con Dodik e molti si chiedono che cosa e’ rimasto del silenzioso appoggio al suo partito. Gli analisti affermano che questo appoggio e’ venuto a mancare a causa della retorica di Dodik che negli ultimi anni ha continuato a sostenere l’indipendenza della Republika Srpska a danno dell’integrita’ della Bosnia.

Secondo uno degli analisti politici locali, Miloš Šolaja, direttore del Centro per le relazioni internazionali di Banja Luka, alle prossime elezioni ci saranno meno interferenze dall’esterno anche se una parte della comunita’ internazionale vi rimarra’ fortemente presente, ma il suo ruolo non sara’ decisivo. Sempre secondo gli analisti, dalla prospettiva odierna e’ difficile prevedere chi sara’ il vincitore alle prossime elezioni che si terranno tra un anno, ma sono convinti che Dodik e il suo partito (SNSD) non avranno l’appoggio di cui godevano nelle precedenti sfide elettorali. Quale che sia l’attuale umore, l’opposizione dovra’ lavorare con molto impegno e presentarsi unita poiche’ Dodik e il suo partito hanno ancora la fiducia di una gran parte dei cittadini della Republika Srpska.

Intanto l’Alto rappresentante dell'Onu per la Bosnia Erzegovina, Valentin Inzko, incontrando a New York il segretario generale Ban Ki-Moon ha rilevato che la situazione richiede ancora la piena attenzione della comunita’ internazionale per garantire la salvaguardia della stabilita’ e passi avanti nella ricostruzione del Paese e nella riconciliazione dei suoi popoli. Purtroppo, dal suo ultimo rapporto presentato lo scorso maggio davanti al Consiglio di sicurezza e a poco meno di un anno dalle elezioni la situazione non e’ cambiata. I leader politici, ha detto Inzko, non hanno ancora mostrato la volontà di voler realizzare le riforme politiche ed economiche indispensabili affinche’ il Paese possa andare avanti e non hanno nemmeno intrapreso seri sforzi per fa avanzare il processo di integrazione euro-atlantica. Tuttavia, Inzko si e’ detto fiducioso che i leader locali possano lavorare molto di piu’ e che ci sia ancora la possiblita’ che i partiti della coalizione governativa a livello statale possano raggiungere un avanzamento a lungo termine nell’adempimento delle condizioni per l'integrazione europea e per l’adesione alla Nato prima delle elezioni dell’ottobre 2014.

giovedì 14 novembre 2013

LA CROAZIA E IL REFERENDUM SUL MATRIMONIO: QUALE FUTURO PER LE UNIONI GAY?

Il prossimo 1 dicembre i cittadini croati si recheranno alle urne per rispondere ad un referendum molto particolare: dovranno infatti rispondere ad una domanda sulla definizione della natura del matrimonio. Dovranno cioè dire se sono favorevoli all’inserimento nella Costituzione di un articolo che definisce il matrimonio esclusivamente come l’unione tra un uomo e una donna. Se l’esito del referendum darà la vittoria al “sì”, in Croazia sarà esclusa la possibilità del riconoscimento legale dell'unione tra persone dello stesso sesso. Qui di seguito la corrispondenza di Marina Szikora per la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 14 novembre a Radio Radicale.

Venerdi’ scorso il Parlamento croato, con 104 voti a favore e 13 contrari, ha dato luce verde all’indizione del referendum promosso nei mesi scorsi dalle associazioni cattoliche a capo delle quali vi e’ il gruppo “In nome della famiglia”. Sara’ questo il primo referendum indetto su richiesta dei cittadini. I socialdemocratici del premier Zoran Milanović hanno dovuto quindi rispettare la volonta’ di oltre 700 mila firmatari della richiesta di una consultazione popolare che, secondo i critici e la comunita’ Lgbt, rappresenta un attacco politico contro il governo e contro il rispetto dei diritti umani e delle minoranze. Dalla maggioranza assicurano pero’ che, anche in caso di vittoria del “sì” non sara’ messo a repentaglio l’impegno del governo per il futuro riconoscimento delle unioni civili tra persone tra gay o lesbiche e la concessione di quasi tutti i diritti di cui godono le coppie eterosessuali, tranne la possibilita’ di adozione. Non saranno nemmeno minacciate le “coabitazioni non registrate” tra persone dello stesso sesso se vivono insieme da piu’ di tre anni, un diritto questo riconosciuto gia’ da un decennio.

Il tema ha scatenato una vera bufera di polemiche, che si sono riversate poi anche nel Parlamento di Aagabria prima del voto. Anche la maggioranza di centrosinistra e lo stesso premier Zoran Milanović, che hanno dovuto rispettare la volonta’ di oltre il 10% dei cittadini del Paese, ritengono che il referendum sarebbe discriminatorio nei confronti delle minoranze sessuali e delle coppie di fatto. Secondo il presidente Ivo Josipović si tratta di una questione molto delicata, ma il capo delo Stato e’ dell’opinione che il provvedimento sulla definizione del matrimonio in quanto unione tra uomo e donna non dovrebbe far parte della Costituzione. Il comportamento verso le minoranze di ogni tipo e’una forma di legittimazione democratica della sociata’, ha detto Josipović affermando che al referendum votera’ contro la proposta in questione. Voterà “no” anche il premier Milanović. E anche se è stato costretto a rispettare la volonta’ espressa dai cittadini che hanno chiesto la consultazione, Milanović ritiene l’iniziativa promossa dal gruppo “In nome della famiglia” come un brutto episodio a causa dell’inesistenza di una cornice normativa che disciplina le modifiche costituzionali, per cui ogni questione legata alla modifica della Carta puo’ trasformarsi in un quesito referendario.

PASSAGGIO IN ONDA

E' on-line la puntata di Passaggio a Sud Est andata in onda il 14 novembre.
La trasmissione e' ascoltabile direttamente qui oppure sul sito di Radio Radicale.



Sommario della trasmissione


Croazia: il 1à dicembre si terrà il referendum per introdurre nella Costituzione una definizione della natura del matrimonio che potrebbe impedire la legalizzazione delle unioni tre persone dello stesso sesso. 

Albania: la visita del commissario europeo all'Allargamento Stefan Fuele per favorire il dialogo ad alto livello e rilanciare il processo di integrazione; proteste e polemiche contro il Governo e contro l'eventualità che in Albania avvenga lo smantellamento delle armi chimiche siriane. 

Kosovo: Belgrado invita i serbi ad andare alle urne nella ripetizione delle elezioni amministrative a Kosovska Mitrovica previste per domenica prossima; annullato il vertice bilaterale tra Pristina e Tirana. 

Bosnia: la situazione politica a meno di un anno dalle elezioni, mentre in Republika Srpska sembra emergere un'opposizione al leader fino ad oggi indiscusso, Milorad Dodik. 

Una conferenza internazionale conclude il progetto europeo "Racconta l'Europa all'Europa" promosso da Osservatorio Balcani e Caucaso: un bilancio dell'iniziativa con un'intervista a Luka Zanoni direttore della testata giornalistica di OBC.


Nella puntata anche un ricordo della distruzione del ponte di Mostar avvenuta il 9 novembre 1993 ad opera delle artiglierie croato-bosniache: la testimonianza del giornalista Dario Terzic tratta dal documentario "Il cerchio del ricordo" di Andrea Rossini.

La trasmissione, realizzata con la collaborazione di Marina Szikora e Artur Nura, è ascoltabile direttamente qui



mercoledì 13 novembre 2013

VENTI ANNI FA IL BOMBARDAMENTO DEL PONTE DI MOSTAR

Alle 10.15 della mattina del 9 novembre 1993, dopo due giorni di bombardamenti, l'artiglieria croato-bosniaca, distruggeva lo Stari Most, il “Ponte Vecchio” costruito con 456 blocchi di pietra bianca dall’architetto ottomano Hajrudin Mimar, che dal 1557 scavalcava la Neretva, unendo le due metà di Mostar, una delle città più importanti dell’Erzegovina. Mostar, era già stata assediata e bombardata dai serbi nel 1992, ma croati e bosgnacchi avevano combattuto insieme riuscendo ad allontanare l’esercito serbo.

La situazione però cambiò nel corso del 1993 e in novembre la città si trovò di fronte ad una diversa divisione tra le forze dell'Herceg-Bosna, uno stato autoproclamatosi indipendente nel 1991, che occupavano la parte occidentale, e l’esercito della Bosnia-Erzegovina, attestato sul versante orientale. Dopo settimane di combattimenti sei ponti su sette nell’area di Mostar erano stati distrutti: solo lo Stari Most era rimasto in piedi. Fino alla mattina del 9 novembre.

L’artiglieria croato-bosniaca che distrusse il ponte era comandata da Slobodan Praljak. Nell’aprile del 2004 Praljak e altri cinque comandanti croati saranno estradati e poi condannati per crimini di guerra dal Tribunale internazionale per l’ex Jugoslavia dell’Aja. La distruzione dello Stari Most non aveva utilità dal punto di vista strategico e militare, ma l’effetto psicologico sulla popolazione bosgnacca fu enorme.

La distruzione del ponte venne filmata da Zaim Kajtaz e le immagini sono ancora oggi tra le più conosciute del conflitto.



Quella mattina, Dario Terzic, giornalista, era lì, poco distante e nonostante le bombe corse a vedere, incredulo, quando arrivò la notizia che il "Vecchio" non c'era più. Qui di seguito la sua testimonianza in un estratto del documentario "Il cerchio del ricordo" di Andrea Rossini di Osservatorio Balcani e Caucaso.



Azra Nuhefendić ha raccontato sul sitodi Osservatorio Balcani e Caucaso che cosa significava il ponte di Mostar, quali furono le reazioni alla sua distruzione e che cosa rappresenta oggi il nuovo ponte, ricostruito con la stessa pietra e secondo lo stesso disegno dell’originale, dichiarato patrimonio dell’umanità dell’UNESCO che dal 2004 è tornato ad unire le due sponde di una città che resta invece ancora profondamente divisa.

martedì 12 novembre 2013

ALBANESI NEL PD

Visto tutto il gran parlare e le polemiche fatte in questi giorni sul presunto mercato delle tessere in vista delle primarie per l'elezione del prossimo segretario del Partito Democratico, mi pare utile riportare qui la testimonianza di Ismail Ademi pubblicata su Albania News. Con una mia osservazione: mi pare innegabile che la notizia dell'iscrizione di italo-albanesi al PD sia stata data spesso con una neanche troppo nascosta vena di razzismo. Albanesi nel PD? E' evidente che qualcosa non quadra! Fossero stati dei collezionisti di francobolli o dei ferrotramvieri o dei giocatori di briscola... Ma degli albanesi!!
Se ci si pensa un po' - fate le dovute differenze - è una storia che assomiglia a quella dei rom greci "rapitori" della bambina bionda. Si sa che gli zingari rapiscono i bambini! Poi l'esame del Dna dimostra il contraio, ma quelli sempre zingari restano!



La questione Asti(O) albanesi nel PD
da Ismail Ademi - Albania News, 12 novembre 2013

Troppe iscrizione di cittadini stranieri, e quindi sospendiamo il congresso provinciale del PD di Asti. Questo titolo, riportato in modi simili in molti giornali, ha tenuto banco per alcuni giorni.
Ecco, da italo albanese ed nativo del Partito Democratico, affermazioni di questo tipo non mi piaciono e penso siano lesive sia per gli italo albanesi che cercano di impegnarsi in politica che per il partito stesso.

Hasan Bucari e Marian Bjeshkeza, due italo albanesi, si sono candidati nella lista del candidato segretario Ferrero (area renziana).

Per arrivare all’elezione e al successo della propria lista, hanno sensibilizzato, mobilizzato e a quanto pare convinto, molti loro conoscenti, parenti, amici e colleghi, a fare la tessera del PD per poterli votare, e partecipare cosi attivamente alla vita politica del partito.

Solitamente quando uno qualsiasi si candida ad un incarico politico non coinvolge la sua comunità? Quando uno si candida a fare il consigliere comunale non chiama gli ex compagni di classe, i colleghi di lavoro, i parenti ecc, per aumentare il proprio consenso elettorale? Cosa cambia in questo caso? Dove sta l’anomalia? Per favore qualcuno me la spieghi.

Gli albanesi in Italia sono oltre 500 mila, e di questi ben 60 mila hanno la cittadinanza italiana. Votanti sono intorno ai 27 mila, all’incirca lo stesso numero di elettori che è bastato alla coalizione di centro sinistra guidata da Prodi, per vincere le elezioni nel 2006.

Il trend di concessione di cittadinanze per gli immigrati albanesi è in crescità, in quanto tra le comunità più radicate e integrate sul territorio nazionale. Nei prossimi 10 anni si stima che gli italo albanesi, quindi elettori a tutti gli effetti, saranno oltre 150 mila. A quel punto penso che non si potranno ignorare.
Nel fratempo, molti italo albanesi, oltre al sottoscritto, sono impegnati nel PD a vari livelli e sparsi su molti territori. È una militanza che va avanti da anni, dalla nascita del PD, e che ancora non si è materializzata in una rappresentazione degli organi dirigenti del partito e tantomeno in cariche politiche.

Va ricordato, a beneficio dei lettori, che tra i pochissimi aspetti positivi del “Porcellum” vi è la possibilità per i partiti di inserire nelle liste bloccate alcune categorie di persone che altrimenti non possono avere rappresentanza. Tra queste, gli italiani di origine immigrata potevano essere una categoria, qualora ci fosse volontà politica seria e non solo corsa di poltrone.

La comunità albanese, in un grande segno di unità( oltre 40 associazioni su tutto il territorio nazionale) e consapevolezza, mi aveva proposto alla vigilia delle ultime elezioni politiche, come potenziale candidato parlamentare per il PD alle elezioni politiche. Per una serie di motivi, ciò non si avverò, forse anche per la poca consapevolezza del partito stesso del potenziale della comunità italo albanese in Italia e soprattutto del messaggio di integrazione che in questi casi si veicola, fidelizzando cosi un segmento di elettorato (perché alla fine tutti i partiti politici tendono a convincere l’elettorato sulla bontà della loro proposta politica).

Ad oggi non vi è nessun italo albanese che sieda in un consiglio regionale, in una giunta comunale di medio grandi dimensioni, in parlamento e in organi nazionali e regionali di rilievo del PD. Nonostante ciò partecipano, partecipiamo alla vita del partito, riconoscendone gli aspetti positivi, primo fra tutti la possibilità di partecipare attivamente, attivamente e passivamente.

Ecco quindi, continueremmo a partecipare attivamente, a coinvolgere la comunità italo albanese in una emancipazione socio politica che ci metta nelle condizioni di dare a questo paese una parte di quello che abbiamo ricevuto.

Quindi per le primarie del 8 dicembre, mi auguro che ci sia una partecipazione significativa degli italo albanesi e che il nuovo segretario del PD che ne uscirà vincitore sappia valorizzare questi percorsi anche dopo il voto.

Per tutti quelli che “che bello il nuovo sindaco di New York”

Negli USA, per esempio, i voti italo americani sono considerati importantissimi, tanto che alla cena della NIAF (Italian American Foundation) vi partecipano molto spesso i candidati alla Casa Bianca. Sta di fatto che sulla base delle loro affermazioni sugli italiani, i candidati rischiano di perdere o guadagnare consensi. Agli inizi della loro partecipazione politica le comunità di origine immigrata sono più propense ad appoggiare il centro sinistra (sommariamente identificato negli USA con i Democratici),e con il passare del tempo e anche la progressione sociale finiscono per avvicinarsi anche al centro destra.

Obama e Romney (perché su questo negli USA sono uguali)

Nell’ultima campagna elettorale hanno concentrato buona parte della loro propaganda verso la comunità ispanica, molto numero negli USA e soprattutto negli stati in bilico. Obama addirittura ha speso milioni di dollari per fare degli spot in lingua spagnola in tv e convincere i latinos a votare per lui.
Poi comunque alla fine sta ad ognuno di noi, decidere se l’Italia debba diventare un paese moderno, oppure perdersi a guardare nel suo ombelico provinciale.